Paolo Pino

Dario Pellizzon

Pino Paolo pittore e scrittore d'arte (notizie dal 1534 al 1565) Attivo a Venezia e a Padova, fu allievo del Savoldo. L’opera di Paolo Pino ha un carattere di indubbia duplicità: da un lato la produzione artistica con l’apprendistato presso Savoldo e la qualifica di "dorador e dipintor", che ne dirige l’azione verso l’artigianato artistico. Sul versante opposto il Dialogo di pittura lo propone come teorico dell’arte e intellettuale dotato di conoscenze non comuni. La mancanza di documentazione sulla sua vita e sulle opere, la scomparsa o l’irriconoscibilità di alcune di esse, hanno accentuato questa divergenza, elevandola al rango di enigma in grado di scoraggiare la riflessione storico artistica. Anche per questo la storia dell’arte, fino a dieci anni fa (con le capitali eccezioni di Rodolfo e Anna Pallucchini) si è concentrata molto più sul dialogo che sul suo autore, portando come giustificazione le carenze documentarie; il Dialogo ha così ottenuto una "vita propria" quasi indipendente dalle testimonianze e dalla superstite produzione di Paolo Pino, affidata invece a studi eruditi locali, spesso ignorati a breve distanza di spazio e tempo. Di Paolo Pino si ignorano le date e i luoghi di nascita e di morte, e scarsa è la documentazione sulla sua attività; ciò rende prezioso ogni riferimento autobiografico nelle opere e necessario il rapporto con il contesto culturale in cui si trovò a operare. Sicuramente è nato a Venezia, per la dedica del trattato al doge Francesco Donà delle Rose, e per la relativa insistenza con cui si firma venetus. La sua venezianità non si spinge però molto oltre; le altre testimonianze parlano di una formazione pittorica a Brescia, presso Gerolamo Savoldo, e di un’area d’azione limitata, nei luoghi, come nei contenuti, alla terraferma padovana. La stessa prosa del Dialogo è lontana dai precetti indicati dal Bembo nel 1525 con le Prose della volgar lingua, e si avvicina di più allo stile "cortigiano" di B. Castiglione, per la ricchezza di latinismi e termini tecnici.  La prima attestazione certa della sua attività è il "Ritratto di collezionista" (Chambéry, Musée d’art et d’histoire), in cui si firma Paulus de Pinis faciebat 1534. Il "Ritratto del medico Coignati" (Firenze, Uffizi) porta un’iscrizione simile e una data poco leggibile, ma in genere ricondotta allo stesso anno. Nel 1548 diede alle stampe il Dialogo di pittura, bruciando sui tempi di pubblicazione Giorgio Vasari, le cui Vite erano pronte già dal 1547 e ben note a P. Pino. Poco dopo fece incidere Paulus Pino inv. 1549 sulla "Colonna della pace" da lui progettata per il paese di Noale, dove fu accolto con successo e richiamato dal podestà Contarini, nel 1557, per creare un ciclo di affreschi interni ed esterni al palazzo pubblico, a pochi metri dalla stessa colonna. L’opera, composta di storie ed allegorie, è la più vasta di cui si abbia notizia ed è ricordata dallo storico locale Francesco Scipione Fapanni, ma fu distrutta nel 1848 con l’intero edificio. Risalgono forse a quegli anni due teleri longitudinali alle navate della chiesa arcipretale dello stesso paese, perduti anch’essi dopo la loro rimozione nel 1874.  Nel 1558 compare a Padova, come "dorador et dipintor", nel contratto per la cornice dell’altare maggiore della chiesa francescana della Beata Elena Enselmini, ora distrutta. Il 20 Luglio 1564 firma una lettera ad Alvise Cornaro, in morte del nipote Federico. La sua ultima testimonianza è del 1565, data riportata dal cartiglio della pala "Madonna con bambino tra i santi Antonio, Bartolomeo, Giacomo e Pietro martire", commissionata da Antonia Urbino e tuttora collocata nella chiesa di S. Francesco Grande a Padova. Inoltre si ha notizia da F. Sansovino, di un "Dialogo dello huomo e delle sue proprietà, di due commedie e diversi altri poemi"; testi oggi scomparsi o impossibili a individuarsi. I Pallucchini gli attribuirono (concordemente) il "Ritratto di gentiluomo trentasettenne con fiore" (Roma, galleria Doria Pamphilj), mentre un altro documento ricorda un perduto autoritratto nella raccolta Mantova Benavides a Padova. Questo è quanto era noto nel 1954, anno dell’ultima pubblicazione italiana del Dialogo, (Milano, Rizzoli). Non è molto, ma è già più di quanto si sappia su Giorgione. Negli anni successivi, in particolare dagli anni ottanta, sono stati compiuti nuovi e più approfonditi studi, con risultati interessanti: nel 1982 è stata segnalata l’esistenza di un’altra lettera di P.Pino ad Alvise Cornaro presso la Nationalbibliothek di Vienna (cod.6251-Foscariniano 67-, cc 41r-42v); la missiva è firmata P.P. e non riporta la data di composizione, che è riconducibile agli anni 1558/59, visti i riferimenti al trattato Vita sobria pubblicato nel 1558 da A.Cornaro. Il testo conferma le relazioni tra i due uomini e, volutamente, dà prova delle conoscenze intellettuali di P.Pino, che cita orgogliosamente Dante, la Bibbia, Diogene Laertio, Epicuro, Platone. Ancora più recentemente, dal 1990, si è imposta all’attenzione della critica la "Pala di S. Benedetto" nella chiesa arcipretale di Scorzè: segnalata nella visita pastorale del 1913 come lavoro di "Pino da Noale", fu ignorata sino al 1968, quando S. Stangherlin la indicò come opera di P. Pino nel libro Scorzè e le sue frazioni. Le cattive condizioni della pala ed il carattere locale della pubblicazione fecero restare isolata questa attribuzione: prova ne è che lo stesso R. Pallucchini, pur avendo visitato la chiesa di Scorzè, non prestò interesse alla sua pala. Spesso la storia dell’arte ha attribuito o sottratto un’opera ad uno o più autori, sulla base di raffronti stilistici, anche in totale assenza di documenti o cartigli; ma questo è un caso emblematico, perché la tela è esplicitamente firmata Paulus Pino P. in un cartiglio al centro, in basso. Solo nel 1990, in occasione di un non più rinviabile restauro, la tela è stata "riscoperta" e attribuita a P. Pino, benché fosse da sempre sotto gli occhi di tutti. Dopo la scomunica lanciata da Giulio II contro la Serenissima (27 Aprile 1509), e l’avanzata minacciosa degli eserciti di Cambrai, Padova si consegnò spontaneamente agli imperiali, salvo essere poi riconquistata il 27 Luglio dello stesso anno. Sono seguiti anni di crisi economica e politica, con la difficile riaffermazione della pax veneta in una terraferma messa a ferro e fuoco fino a 20 chilometri da Venezia. Il ritorno alla madre patria sarà celebrato allegoricamente da Tiziano nel 1511, con gli affreschi per la scuola del Santo, a Padova. La città era da secoli un centro culturale di primo piano: con lo studium ed i suoi circoli privati attirava intellettuali da molto lontano, sia dal dominio veneto, sia da oltre frontiera. In particolare, il tradizionale ed orgoglioso aristotelismo padovano aveva favorito la riflessione sulle arti meccaniche con maggiore facilità rispetto al neoplatonismo fiorentino e a quello più moderato di Bembo, su cui sembrava allineato, almeno in primo tempo, Tiziano. Nei decenni centrali del 1500 il ritorno alla normalità ed una certa ripresa economica avevano rilanciato notevolmente la vita culturale della città, riaffermandone la caratteristica autonomia, nel nome di una patavinitas aperta anche agli apporti di Mantova e Ferrara, non solo a quelli di Venezia. E’ questo il momento in cui P. Pino fa la sua comparsa nella élite culturale padovana, presentandosi come intellettuale versatile ed esperto in vari campi: letteratura, filosofia, classici latini, scienze matematiche e musica; poteva disporre, da quanto emerge nel Dialogo, di una ricca ed aggiornata biblioteca personale, fatto non comune al tempo. La sua formazione pittorica centroitaliana lo rese pittore gradito, soprattutto nei circuiti della ritrattistica privata, genere molto diffuso e che richiedeva costante adeguamento alle nuove tendenze. Il suo primo e principale referente fu Marco Mantova Benavides, giureconsulto e collezionista illustre, che tenne stretti rapporti con P. Pino, come testimonia un perduto autoritratto donatogli da Pino e figurante nell’inventario della sua collezione privata. E’ possibile che il collezionista del ritratto di Chambéry (1534) sia proprio Benavides, effigiato in una posa simile a quella in cui, nel 1527, L. Lotto aveva raffigurato Andrea Odoni. Benavides mise Pino in contatto con i migliori salotti della città e gli procurò sicuramente delle commissioni, tra cui la più importante delle opere pervenuteci, la pala della chiesa di S. Francesco grande, eseguita per Antonia Urbino, con cui aveva legami di parentela. Grazie al suo influente amico, Pino conobbe Alvise Cornaro, l’altra grande figura cui appare legato a doppio filo Cornaro (esito "padovanizzato" di Corner) era il principale esponente dell’autonomia culturale patavina: scrisse la Vita sobria (1558), trattato in cui polemizza con i medici dell’ateneo padovano e propone un personale elisir di lunga vita, basato proprio sulla sobrietà dei costumi. Il suo ruolo principale fu però quello di mecenate e promotore della produzione intellettuale: presso il suo circolo trovò rifugio e appoggio Angelo Beolco, noto come Ruzante, l’esempio più concreto della patavinitas in cui Pino operava. Cornaro fondò l’Accademia degli Infiammati, attiva soprattutto tra il 1540 e il 1542, che ospitò le letture di Ruzante, Pomponio Gaurico (dalmata, autore di un De sculptura di stampo albertiano), Pierio Valeriano (autore, nel 1556, degli Hyerogliphica) e di Benedetto Varchi. Questo circolo era frequentato dunque da alcuni tra i più importanti intellettuali del tempo ed era in contatto con i maggiori centri culturali del Nord Italia, in particolare con Firenze, visto che ebbe a disposizione uno dei manoscritti delle Vite, in attesa di essere stampate; probabilmente diede spazio allo stesso Vasari, in occasione del suo primo viaggio a Venezia. In questo contesto si colloca l’opera di Paolo Pino, che scrisse il Dialogo (ed anche le commedie perdute) proprio sulla scorta di questi stimoli, dimostrandosi all’altezza del compito che si era prefisso: elevare la pittura ad arte liberale, con un trattato innovativo nella forma ed in grado di accordare idee già affermate con nuovi contenuti. L’attività di Paolo Pino, come quella di altri pittori, si divide tra committenza pubblica, laica o religiosa, e commissioni private, con la prevalenza del genere ritrattistico. L’analisi dei documenti disponibili evidenzia che la maggior parte delle opere eseguite da Pino è andata perduta, fatto indicante che la sua fortuna presso i posteri è stata scarsa, se non nulla. Tuttavia, il suo successo in vita non è stato trascurabile. Egli nel Dialogo depreca la sorte capitata al suo maestro Savoldo, che passò "la vita sua con poche opere e con poco preggio del nome suo", facendo generalmente intendere che la propria sorte non è stata migliore; bisogna però notare che il passo citato non manca di un certo timore reverenziale, e che Pino non poteva aggiungere che la sua arte era stata più apprezzata. Egli dipinse più di quanto comunemente si creda, né si limitò solo alla pittura, come attestano opere e documenti. Certamente la fama di Pino fu limitata a Padova e dintorni e può essere paragonata solo in parte a quella dei contemporanei Paris Bordone o Andrea Schiavone; ma Padova è molto più importante di Brescia, ed egli riuscì in ogni caso a farsi apprezzare negli ambienti migliori della città.