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Giovanni Barbisan (nato a
Treviso il 6 aprile 1914
morto ad Orbetello il 17 giugno 1988)
Ai suoi esordi nel 1936 alla XX Biennale di Venezia, il giovane
artista guarda alla tradizione pittorica quattrocentesca che
sembra esprimere meglio i valori semplici, “solidi” professati
dalla cultura fascista e da quell’anelito di riscoperta della
cultura italiana contro gli sperimentalismi che avevano
caratterizzato il primo Novecento.
É il richiamo all’ordine lanciato negli anni venti da Ardendo
Soffici, con cui Barbisan strinse amicizia.
Esempio emblematico di questa corrente d’idee conservatrici é la
rivista “Selvaggio” fondata da Mino Maccari nel 1926 .
Queste idee furono difese strenuamente e “pubblicizzate
sistematicamente” dalla politica fascista degli anni trenta,
trovando proprio nel Veneto un terreno fertile nella cultura
cattolica, da sempre legata alla tradizione, alla semplicità del
mondo contadino.
Da parte sua, finanziando l’abbellimento degli edifici pubblici,
il fascismo si garantiva il controllo perlomeno della produzione
artistica di più vasta risonanza, proprio perché sotto gli occhi
di tutti.
Il nostro artista dimostra la sua sensibilità a questo clima
culturale proprio con le prime opere presentate ad importanti
manifestazioni come la Biennale e la IX Mostra trevigiana d’arte.
A Venezia Barbisan presenta un affresco ispirato ad una delle
celebri frasi del duce: I nostri migliori amici son i rurali.
Questi contadini, solidi, ben radicati al terreno e che non
lasciano spazio a nessuna leziosità pittorica si richiamano alla
tradizione toscana quattrocentesca per esempio di Masaccio.
Nel suo fare pittorico Barbisan ha presente anche la lezione di
un altro grande cantore del mondo contadino: Guglielmo Ciardi .
Altri importanti punti di riferimento per comprendere l’opera
dell’artista devono ricercarsi negli anni di studio all’Accademia
di Belle Arti di Venezia, dove una serie di eventi fortuiti lo
portò ad avvicinarsi alla tecnica dell’incisione. Iscrittosi
inizialmente al corso di decorazione per volontà del padre che era
un piccolo decoratore, il giovane abbandonò presto questo
indirizzo di studi da cui non traeva gli stimoli e l’insegnamento
desiderato per le ripetute assenze del docente Guido Cadorin,
impegnato nei lavori della chiesa di San Giusto. La ricerca di un
rapporto più stretto ed efficace con il maestro lo spinse a
scegliere il poco frequentato corso d’incisione, allora diretto da
Giovanni Giuliani.
L’insegnamento appreso in quegli anni non solo sfocerà nella
felice produzione grafica, esemplificata dalle bellissime
acqueforti su zinco, ma influenzerà in parte anche la maniera
pittorica dell’artista. La linea che delimita i contorni delle
figure é ben marcata, incisiva appunto, come solido é l’impianto
compositivo della scena raffigurata. Il rapporto tra pittura e
incisione é tanto stretto che, soprattutto negli anni Trenta, i
soggetti preferiti dell’artista come le nature morte vengono
indagati nei due medium artistici. Sembra che l’artista usi al
tempo stesso le due tecniche al fine d’ampliare la gamma di punti
di vista da cui osservare l’oggetto: lo studio dei volumi e dei
colori degli oggetti iniziato con la pittura trova il suo proseguo
nello studio dei toni chiaroscurali dell’acquaforte. Le figure del
Barbisan sono realisticamente, naturalissimamente credibili per la
solidità dei corpi, ma anche per la caratterizzazione psicologica
dei volti, particolarmente evidente nei ritratti realizzati prima
della guerra. Nel ritratto di Tina Tommasini per esempio, la
pennellata pastosa dell’artista da corpo, evidenzia le sfumature
tonali dell’incarnato, ravviva i contrasti tra le zone di luce e
le zone d’ombra nel volto, contribuendo così a rendere veramente
viva e palpitante la superficie pittorica e a caratterizzare in
modo del tutto personale il volto della donna. Così anche il
Cristo del quadro noalese sembra distinguersi dal tipo
iconografico della tradizione consolidata per presentarsi al
fedele con una propria nota particolare, come particolare é il
momento in cui l’artista lo ritrae. Cristo é uscito dal sepolcro;
ancora avvolto dal sudario mostra al fedele le mani bucate dai
chiodi. Cristo non è ancora asceso ai cieli, il suo volto, seppur
solenne, non dimostra ancora l’estasi, bensì sembra attraversato
da un’ombra dell’umana sofferenza patita. La composizione é
ridotta all’essenziale, non ci sono elementi superflui a distrarre
lo spettatore dall’emotività del momento: solo la figura del
Cristo che occupa quasi tutta la superficie del quadro e i due
angeli nella parte superiore che reggono la corona.
Giovanni Barbisan ha partecipato fin da giovanissimo, alle mostre
più importanti in Italia ed all'estero. Presente a tutte le
Biennali Internazionali di Venezia dal 1936 al 1966, a cinque
Quadriennali d'Arte di Roma e ad altre importanti rassegne, come
la Mostra d'Arte Italiana a Berlino nel 1937, al Cairo nel 1950, a
Lisbona e ad Atene nel 1953. In mostre collettive ha esposto a
Boston, Stoccolma, Lima, Wiebaden, Tokio, Lugano, Bruxelles,
Lubiana, Varsavia, Mosca.
E' stato premiato alla Biennale di Venezia nel 1940 e nel 1950,
alla Promotrice Belle Arti di Torino nel 1953, alla Quadriennale
di Roma nel 1953, al Premio Michetti nel 1952, alla Bevilacqua la
Masa nel 1964, al Premio Burano nel 1954, al Premio Marzotto nel
1955, alla Mostra Nazionale del Ritratto di Firenze nel 1955, a
Reggio Emilia del 1957, al Premio La Spezia nel 1957. 1° Premio
Nazionale "A. Soffici" nel 1966 per la grafica. Nel Museo d'arte
Moderna di Ca' Pesaro (Ve) è stata allestita nel 1974, sotto il
patrocinio del Comune di Venezia, una grande mostra antologica di
duecento acqueforti. |